Fedra

di Jean Racine
traduzione di Giovanni Raboni

con Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Alberto Boubakar Malanchino, Marina Occhionero, Bruna Rossi, Massimo Verdastro

regia Federico Tiezzi
scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
canto Francesca Della Monica
movimenti coreografici Cristiana Morganti

produzione Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, ATP Teatri di Pistoia –Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi
 

C’è più verità in una tragedia di Racine che non in tutti i drammi del signor Victor Hugo” rispose Charlus.
(Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore)

Nel palazzo reale di Trezene, in una Grecia mentale e onirica, all’interno di una stanza della stessa reggia simile a una camera di tortura, Fedra si dibatte nella morsa di una passione tanto irrefrenabile quanto impossibile: ama il figliastro Ippolito, figlio di primo letto del marito Teseo. Non ricambiata nella passione, Fedra calunnia Ippolito di un tentativo di stupro. Il ritorno di Teseo sarà il segnale di un inesorabile tracollo, che farà precipitare gli eventi verso la tragedia.

Jean Racine scrive la tragedia nel 1677, sulla base dell’Ippolito di Euripide e della Fedra di Seneca: e questa Fedra pur imbevuta di giansenismo e di filosofia morale, diverrà nei secoli il più grande testo sulla passione erotica che il teatro abbia mai prodotto.

Racine stesso definisce Fedra “la migliore delle mie tragedie”: Fedra è l’eroina tragica perfetta per i fini educativi che l’autore riconosce al teatro, strumento insostituibile per elevare la virtù degli spettatori, per la condanna delle passioni e dei vizi. La tragedia, come nella classicità greca, ha una vocazione morale e deve aiutare lo spettatore a liberarsi dalle passioni attraverso la catarsi: possibile solo partecipando in maniera totale agli avvenimenti tragici. Lo spettatore diviene testimone della passione amorosa di Fedra e delle sue conseguenze disastrose ed è così costretto a scegliere tra la condanna e la pietà, tra la partecipazione emotiva e il giudizio.

Fedra, afferma Racine nella sua prefazione alla tragedia, “non è infatti né del tutto colpevole, né del tutto innocente”.

Nella “camera della tortura” della reggia di Trezene tutti i personaggi hanno qualcosa da nascondere: Fedra l’amore incestuoso, Teseo le sue innumeri fughe amorose, Ippolito di amare Aricia, che discende da una stirpe nemica e assassina, Enone un intrigo bugiardo e colpevole. In questa dimensione claustrofobica, dove la ragione scompare sotto la violenza e la tensione del desiderio, affiorano motivi ancestrali, interpretabili solo con l’ausilio della psicanalisi freudiana. E i mostri che affiorano di continuo nelle parole dei protagonisti sono esclusivamente quelli dell’inconscio. E sotto la sublime, levigata musicalità del verso si rintracciano le figure e le azioni di una tribalità arcaica, dall’incesto all’uccisione del padre.

Questa tragedia dell’inconscio ha il linguaggio e la parola perfetta del più grande autore di teatro che la Francia abbia avuto sotto Louis XIV, un linguaggio e una parola che mostrano, individuano, razionalizzano emozioni pulsioni e tensioni e nello stesso istante le celano sotto il nitore levigato della versificazione. Mentre tutto sembra scivolare via nella musica dell’alessandrino, il nero, buio fondo di questa tragedia della disperazione e dell’inconscio, dell’Ordine e del Disordine, emerge con maggiore evidenza. Fedra, sconvolta dalla sua passione, infrange l’ordine morale, familiare e sociale attraverso il disordine del suo desiderio. All’interno dell’ordine familiare, dentro le regole sociali e dinastiche, l’amore porta il disordine meraviglioso del cuore umano. La ragione cede alla violenza erotica e apparenta Fedra a un'altra eroina dell’antichità classica, a Medea. Questa famiglia in cui si manifestano pulsioni ed emozioni la cui coscienza porta alla colpa e alla punizione (secondo il cristianesimo giansenista dell’autore), in cui si dibattono profondità morali, appartiene di diritto al dramma borghese, che da Euripide arriva fino a Ibsen e oltre.

Con questo dramma borghese, ambientato in una Grecia di cui restano solo rovine, quasi un Ibsen ante-litteram, venato di umori freudiani, Federico Tiezzi torna al mito classico, dopo aver affrontato negli anni le tragedie di Sofocle (Antigone) ed Euripide (Ifigenia in Aulide e Medea). E vi torna insistendo sull’indagine dei personaggi, le loro trasformazioni sotto la forza di un desiderio che si trasforma in colpa e in peccato, spingendosi alla suggestione di una vera e propria seduta psicanalitica.

La Stagione di Prosa 2024-2025 è realizzata dal Teatro del Giglio in collaborazione con Fondazione Toscana Spettacolo Onlus